Partiamo dal presupposto che secondo me i Paesi dove non si
può bere l’acqua del rubinetto non hanno senso di esistere, ma io sono sempre
troppo drastica. Va anche considerato che fino ai vent’anni ho fermamente
pensato non ci fosse bevanda più squisita dell’acqua del rubinetto vicino alla
porta dell’antibagno della mia vecchia casa. Poi abbiamo traslocato e non ho
purtroppo più avuto modo di gustarla, ma rimane impresso nella mia memoria il
ricordo di quell’acqua incredibilmente buona, deliziosa, perfetta. Mi rendo
conto, d’altro canto, che così ragionando si eliminano dalla cartina moltissimi
luoghi che invece meritano decisamente una visita, pur dovendosi munire di
bottigliette d’acqua del supermercato.
Aggiungiamo inoltre il fatto che dopo un anno nel Regno
Unito la mia sopportazione al caldo è praticamente pari a zero, e già che ci
siamo anche il fatto che mi ero appena trasferita in una nuova città e non
stavo capendo assolutamente nulla di quello che stava succedendo nella mia
vita: in ufficio capivo pressoché nulla, per tornare a casa sbagliavo ogni
singolo giorno la fermata del bus e perdevo la mia e stavo in piedi fissando i
negozi muoversi e la mia casa allontanarsi sempre di più, e riuscivo a
scegliere sempre il giorno e l’ora sbagliata in cui andare a fare la spesa – il
giorno senza manco un’offerta e l’ora più affollata. Insomma, potrà sembrare
assurdo, ma non ero assolutamente pronta per andare in Marocco.
Aggiungiamoci che
dopo un anno e mezzo in cui il novanta per cento dei miei viaggi li avevo fatti
in solitaria: dalla Bulgaria, alla Romania, e poi il Portogallo, il
Lussemburgo, l’Irlanda del Nord e la Norvegia e ancora l’Irlanda… Di adattarmi
di nuovo ad avere un compagno di viaggio non avevo veramente voglia: partivo
già col cazzo girato alla sola idea di dover scendere a compromessi e non poter
fare quel cavolo che volevo io e solamente io. D’altro canto, però, non
ricordavo nemmeno l’ultima volta in cui mi fossi sdraiata in costume, con i
miei occhiali da sole preferiti in faccia, a prendere il sole senza pensieri.
Ho lasciato l’Inghilterra il 13 settembre alle sei e dieci
di mattina, congelando. Indossavo un paio di pantaloni lunghi, una maglietta,
una felpa e una giacca e mentre dall’hotel di Stansted (ecco: viaggiare in
compagnia ha avuto un vantaggio, non ho passato la notte accampata in
aeroporto ma ho dormito in hotel) raggiungevo il terminal, dalla mia bocca usciva il fumo quando
respiravo. Quel fumo che a Milano mi ha sempre fatto pensare: “Ci siamo, Bea, è
arrivato il freddo. È arrivato ufficialmente.” Probabilmente qualsiasi città in
Italia ha un clima migliore di Milano, dove in inverno nevica, c’è la nebbia e
fa un freddo becco e dove in estate ci sono trentotto gradi, non c’è un filo d’aria
e le scarpe scavano le impronte nell’asfalto che ha ormai raggiunto la consistenza
e la temperatura di una colata lavica. Quindi sì, il clima a Milano è
abbastanza una tortura in due stagioni su quattro, ma perlomeno l’inverno non
inizia il 13 settembre.
Sono atterrata a Marrakech, dopo aver dormito indisturbata
per tutte le tre ore abbondanti di viaggio, assalita da un vento incredibilmente
caldo. Ho provato a guardarmi intorno ma nessuno mi stava puntando un fon
addosso. Il sole era accecante e dopo un anno in Inghilterra ho anche osato
pensare fosse quasi fastidioso, essendo solamente le dieci e mezza del mattino.
Ho aperto la bocca e con la letale fiatella post pennica su Ryanair ho provato
a respirare: niente fumo. Non sapevo bene se fossi atterrata in Paradiso (il
sole! C’è il sole! Non piove!) o all’Inferno (tutto molto bello ma ‘sto caldo
mi sta già uccidendo), ma poi mi sono ricordata che qualsiasi posto che non sia
l’Inghilterra è l’Eden, quindi mi sono tranquillizzata e ho iniziato a pensare
che non vedevo l’ora di arrivare in centro, scoprire il cibo locale e tuffarmi
in piscina.
All’uscita dell’aeroporto ci aspettava la navetta del riad,
che ci avrebbe portato alla Medina, dove soggiornavamo. Ci siamo seduti comodi
e ci siamo lasciati andare alla sofferenza marocchina più pura: il caldo
soffocante che entrava dai finestrini e il fetore altrettanto soffocante che arrivava
dalla strada. Ancora non lo sapevo, ma avrei dovuto abituarmi in fretta a
entrambi, perché sarebbero stati i miei più fedeli compagni di viaggio.
Durante
il breve tragitto che separa l’aeroporto di Marrakech dal centro della città
non ho mai smesso di fissare la strada e la sua fauna. Era una giungla: un’orrenda
e caotica giungla. Tutti guidano come dei pazzi, il nostro autista ha rischiato
di accoppare almeno un paio di motociclisti, ma la verità è che nessuno era
spaventato, in quella giungla. Tutti apparivano estremamente sicuri delle
manovre folli, da carcere a vita che stavano eseguendo. Come se le corsie non
avessero un senso di marcia: ognuno andava dove voleva, come voleva, quando
voleva. Ho provato a immaginarmi guidare lì con la mia Panda color cappuccino,
ma la sola idea mi ha fatto venire da piangere quindi ho desistito. Quei pochi
in scooter che portavano il casco, ce l’avevano su al contrario: erano davvero
pochi, ma comunque mi incuriosiva come appunto quei pochi avessero tutti un
casco con una piccola visiera, che indossavano al contrario. Il risultato era l’appena
menzionata piccola visiera che andava a incastrarsi fra le vertebre quattro e
cinque causando una paralisi irreversibile, e il laccio del casco che segava
completamente le guance. Ho pensato che i marocchini non sapessero che esistono
i berretti con visiera che possono essere portati al contrario senza incorrere
in particolari lesioni fisiche, ma forse su Instagram il casco al rovescio ti
fa prendere un sacco di #likeforlike.
Dovete sapere, inoltre, che in Marocco ci sono tantissime
tipologie di motorini che in Italia non ho mai visto. Non nomino nemmeno l’Inghilterra
perché, poverini, piove un giorno sì e l’altro pure e quando lo usano ‘sti
poveri cristi un bel rello? Mai. La maggior parte degli scooter marocchini
assomiglia al nostro Ciao: si tratta quindi di motocicli di piccole dimensioni,
poco ingombranti, con partenza a pedale e non so quale sia il termine tecnico
nel mondo dei motori, ma sono dei motorini stra magri (dite che il termine
preciso è proprio stra magri?). I marocchini
ci viaggiano in tre, tutti rigorosamente senza casco. Quando li ho visti in tre
senza casco su un Ciao ho immediatamente pensato: “E i napoletani muti.”
Arriviamo al riad. Il riad è l’abitazione tradizionale delle
medine marocchine. Ha senso, dunque, quando si viaggia in Marocco, soggiornare
in un riad piuttosto che in un classico hotel. I riad sono tutti estremamente
colorati, hanno una piscina al centro del cortile interno e sono tappezzati di
piastrelle dagli incantevoli disegni. La ricerca del riad non era stata
semplice, innanzitutto perché quando viaggi con un’altra persona ti aspetti che
ti dia un minimo una mano o perlomeno ti indichi una fascia di prezzo all’interno
della quale vorrebbe stare, ma è anche vero che quando viaggi con una persona
che guadagna il doppio di te (quando anche tu avevi un buono stipendio) e il
triplo di te (quando non sai ancora perché ma hai accettato di cambiare lavoro
e ridurre il tuo guadagno mensile), è probabile che quella che deve stare
attenta ai costi sia principalmente tu. La ricerca non era stata semplice anche
perché nella Medina di Marrakech presumo ci siano più riad che pub in una normale
città inglese – e ho detto tutto. E sono tutti fottutamente uguali: dalle foto
non capisci quanto sia effettivamente grande quella piscina, se sia uno sputo,
una palude o una vasca da cinquanta metri con blocchi di partenza e nuovo
record del mondo! Phelps conquista l’oro nei duecento farfalla! Certo, ci sono
quelli che fin da subito appaiono nettamente più belli degli altri, ma partivo
dall’idea che per andare a mangiare couscous non avessi particolare voglia di
spendere un capitale. Così, dopo approssimativamente otto ore di ininterrotta
ricerca, ho trovato il riad che volevo prenotare. Lo avevo scelto
principalmente perché invece di avere la piscina al centro del cortile interno,
come da tradizione, ce l’aveva sul tetto. Pensavo infatti che non avevo nessuna
voglia di spendere trecento sterline di volo per fare il bagno all’ombra,
accanto ai quattro turisti stronzi che fingevano di apprezzare il diciottesimo
tè ustionante alla menta offerto dai marocchini. Avere la piscina circondata da
quattro mura alte due o tre piani, infatti, significava avere il sole solamente
intorno alle ore dodici. E se voglio vedere il sole cinque minuti al mese
rimango in Inghilterra. Ho così pensato di prenotare questo riad con la piscina
sul tetto: era il più economico di tutto Booking.com e di foto della piscina,
in realtà, ce n’era solamente una – quindi non è che si capisse molto cosa ci
avrebbe accolti. Ma dopo essermi trovata un senzatetto nel letto dell’ostello a
Bergen, in Norvegia, nulla mi fa più paura.
«Allora, prenotiamo questo?» Chiedo via WhatsApp.
«Per me va bene. Domani chiedo le ferie al mio capo.»
«Per me va bene. Domani chiedo le ferie al mio capo.»
Stavo organizzando un viaggio con una testa di minchia che
non aveva ancora richiesto le ferie. Va anche detto che solo nel mio vecchio
dipartimento il tempo d’attesa per l’approvazione o meno delle vacanze era di
approssimativamente ventuno giorni, tant’è che quello che poco sopra s’è
beccato della testa di minchia (nel dubbio sempre giustamente), il giorno dopo
ha effettivamente richiesto e ottenuto le ferie, e abbiamo prenotato il riad.
Ho quindi prenotato il riad più economico mai visto sui siti
di viaggio, e l’ho fatto quando ancora il mio stipendio era così alto che avrei
potuto comprarmi tutto quel puzzolente Marocco. Meglio così, perché alla fine
quel riad l’ho pagato quando il mio stipendio era decisamente cambiato e oggi forse
non mi potrei permettere di acquistare nemmeno Vicolo Corto a Monopoli.
Il Marocco è stato il primo Paese in cui camminando per le
strade non ho incontrato italiani ogni quattro passi. Anzi, a dire il vero, di
italiani ne ho incontrati solamente due. È stato molto strano, lo ammetto, perché
nonostante siamo il popolo più vecchio e povero d’Europa, siamo sempre in giro
per il mondo: si chiama gioia di vivere, presumo, e in Italia checché se ne dica, sappiamo cosa sia. Ovunque sia andata, infatti, ho
sempre, sempre beccato italiani in giro. A passeggio riconoscevo sempre gli
accenti, ogni parola che capivo mi strappava un sorriso. In Marocco, invece,
nemmeno un porcone. Eh già. Ho infatti incontrato solamente una coppia di
ragazze durante la gita nel deserto. Mentre tutto il pullmino provava a
dormire, quelle due rompicazzo non hanno smesso un secondo di chiacchierare – e
nemmeno raccontavano aneddoti succosi o gossip su persone che non conosco ma di
cui mi sarei comunque interessata, no, quelle due facevano dei giochi.
«Nomi di animali che iniziano con la lettera esse.»
«Serpente.»
«Squalo.»
«Storione.»
«Salmone.»
«Serpente.»
«Squalo.»
«Storione.»
«Salmone.»
E poi il gioco sarebbe dovuto finire, rapido e indolore, perché
non ci sono altri stramaledetti animali con la esse, ma no, loro non volevano
arrendersi alla realtà dei fatti e hanno passato un’intera ora a cinguettare:
«Ce ne sono altri?»
«No.»
«Dici?»
«Credo di no.»
«Forse qualcuno…»
«Forse qualcuno c’è.»
«Ti viene in mente qualcosa?»
«No, ma devono essercene altri.»
«No.»
«Dici?»
«Credo di no.»
«Forse qualcuno…»
«Forse qualcuno c’è.»
«Ti viene in mente qualcosa?»
«No, ma devono essercene altri.»
Dal mio sedile non sapevo se gridare scimmia! Stambecco!
Sanguisuga! Stella marina! Scorpione! Sogliola! Seppia! Scimpanzé! Sciacallo!
Salamandra! Scoiattolo! Scrofa! Scarabeo! Oppure un poderosissimo “Sileeenzio!”
a mo’ di Silente nella mensa di Hogwarts.
Era però pieno di spagnoli, che in una città dove, chi non
sa l’inglese, può provare a bofonchiare qualcosa non dico in arabo, ma
perlomeno in francese, parlavano a tutti, senza ritegno o imbarazzo, in rapido
e fluente spagnolo. I marocchini dei suk, a dirla tutta, pur di riuscire a
vendere qualsiasi cosa hanno di fatto imparato qualsiasi lingua e penso siano
esperti anche nella scrittura del cinese, ma nei ristoranti la situazione era
un po’ differente. Non so se gli spagnoli dessero per scontato che la gente
locale capisse perfettamente la loro lingua da pasito a pasito, suave suavecito
despacito per via della vicinanza geografica, fatto sta che non facevano il
minimo sforzo per balbettare quelle quattro parole in inglese che eran sufficienti per trascorrere una piacevole ed educata serata al ristorante ordinando un
piatto a caso del menù – che tanto non si capiva una sega di quel miscuglio di
cose a caso che mettono nei piatti in Marocco.
Il cibo marocchino merita una menzione particolare. Il ragazzo
da cui andavamo a comprare l’acqua ogni giorno ci ha raccontato di come fossimo
stati fortunati a beccare trentacinque gradi, perché lì si arriva facilmente a
cinquantasei durante il Ramadan quando, cioè, quei poveri disgraziati non
possono né mangiare né bere. Bene: questa quindi è la premessa per far capire
quanto cazzo faccia caldo in Marocco.
Oltre al tè alla menta servito rigorosamente a temperature
infernali e la cui assunzione ti causa la completa e permanente ustione delle
vie orali rendendole poi incapaci di svolgere nuovamente le loro normali e
biologiche funzioni, i piatti principali del Paese sono due.
Il primo sono le tajine (principalmente di pollo, ma non
solo). Si tratta di una pietanza berbera servita nell’omonimo piatto di
terracotta – che forse viene utilizzato proprio come pentola, vista la forma. L’aspetto
esteriore è quello di una piramide di terracotta: il cono superiore viene poi
sollevato dal cameriere che ti serve solamente il piatto di terracotta all’interno
del quale vi è un ammasso informe di cosce di pollo da disossare, verdure
bollite e spezie di qualsiasi tipo. Ammetto che il sapore non è male, se
mangiato una volta o al massimo due. Alla fine della seconda volta il sapore ha
già rotto la minchia. La forma piramidale del piatto completo fa sì che il cibo
mantenga sempre la temperatura di cottura: e quando fuori ci sono novantotto
gradi, cosa c’è di meglio di gustare una bella coscia di pollo gialla
accuratamente tenuta a centosedici gradi e servita in una piramide di terracotta
(che a questo punto mi sentirei di paragonare più a un vulcano in eruzione) che
non si raffredderebbe manco al Polo Nord?
Il primo giorno in Marocco pensi che
non ci sia nulla di meglio, perché wow! Stai assaggiando le vere tajine! Poi
inizi a renderti conto che quando Geppetto si mette a mangiare i torsoli e le
bucce delle tre pere che Pinocchio voleva rigorosamente sbucciate, forse si
stava gustando un pasto più gourmet del tuo.
Un’altra cosa che mi urtava
parecchio delle tajine di pollo era la scelta della coscia. Porca troia, sono
in un Paese sporchissimo, non mi lavo le mani da ieri mattina, mangiando una
coscia di pollo con le posate metà della carne rimane attaccata alle ossa ma
allo stesso tempo proprio perché non mi lavo le mani da ieri mattina non sono
particolarmente propensa a usarle adesso… E non mi puoi dare un bel petto? È in
Marocco, quindi, che ho iniziato a pensare che forse quelli che vanno sempre in
giro con quelle boccettine di igienizzante per le mani non sono completamente
dei menomati mentali, sono semplicemente forse stati a Marrakech prima di me.
Il secondo piatto tipico è un piatto che a me personalmente
piace molto. Si tratta del couscous. Mi piace con le verdure, col pesce, con
la carne, mi piace freddo e mi piace tiepido. In Marocco lo servono bollente. Allora:
posso capire che servire una coscia di pollo fredda con verdure bollite fredde
possa non essere il massimo della prelibatezza, ma porca miseria: perché se
fuori ci sono centoventinove gradi non mi fate un bel couscous fresco, a mo’
di insalata? No, anche il couscous viene servito in un piatto di terracotta
che non smette mai di emanare fumi caldi – e guardando bene si potrebbero forse
scorgere anche lapilli. Di questa cosa non sono riuscita a capacitarmi per
tutta la vacanza e tuttora sono piuttosto disorientata.
Il couscous viene servito con le classiche e irresistibili verdure bollite. E l’Inghilterra
è per ora l’unico altro Paese in cui ho visto servire le verdure sempre e solo
rigorosamente bollite. A vantaggio del Marocco c’è da dire che le verdure erano
effettivamente buone e avevano un sapore, mentre mangiare verdure bollite in
Inghilterra equivale ad addentare una natura morta dipinta su tela: insapore fino a causare fastidio.
Dopo circa un paio di giorni, dunque, tutti i piani culinari
sono cambiati e io e il mio compagno di viaggio abbiamo iniziato a cercare su
TripAdvisor consigli per i migliori ristoranti in cui mangiare non marocchino
in Marocco. Abbiamo mangiato libanese, senegalese e tante cose a caso: buone,
cattive? Non infuocate, ecco qual era il requisito principale, per non dire
unico.
La permanenza all’interno della Medina è stata, in linea
generale, fastidiosa. Se per strada non vi è alcun codice da rispettare, nei
vicoletti della Medina le regole per i marocchini in motorino sono
principalmente due:
- Hai sempre la precedenza;
- Non usare mai i freni.
I vicoli, in quanto tali, sono ovviamente piuttosto piccoli
e stretti, e lo spazio si fa sempre più angusto man mano che i negozietti
aumentano. La gente si ferma, chiacchiera, osserva, e quelli corrono in
motorino come dei pazzi, incuranti dei turisti verso i quali riversano un
viscerale e nemmeno un po’ celato odio. Ti vengono addosso, non chiedono scusa,
non lasciano passare nessuno, che siano donne locali, donne straniere, bambini.
Guidano e basta, come pazzi forsennati.
Li ho detestati ogni singolo giorno.
A ogni curva è bene fermarsi e sporgere la testa per
controllare che non stia arrivando nessuno scooter, perché quelli non si
fermano, né avvertono del loro arrivo al di là della curva con un colpo di
clacson. Devi lasciarli passare, anche se non sai ancora che stanno arrivando. I
marocchini che sono a piedi, invece, non smettono un secondo di parlarti. Provano
a capire la tua nazionalità e provano a venderti qualsiasi cosa, a farti
entrare in qualsiasi ristorante, a consigliarti la strada migliore per arrivare
alla piazza. Parlano sempre.
Li ho detestati ogni singolo giorno.
Li ho detestati soprattutto la sera in cui siamo andati a
cena nella piazza principale, quella di Jemaa el-Fnaa. È una piazza piena di
bancarelle, colori, odori, animali, persone, rumori, grida: è l’immagine del
casino. Ed è questa la sua bellezza. Stavamo camminando fra i corridoi degli
stand di cibo mentre venivamo assaliti da ogni lato da gente che voleva ci
sedessimo alle loro panche.
«Vieni qui, amico,» dicevano al mio compagno di viaggio. «Sei
magro, siediti e mangia qualcosa.»
Quei bastardi a me non hanno detto una singola volta che ero
magra.
Li ho detestati ogni singolo giorno.
Una delle cose che non vedevo l’ora di fare in Marocco era
trascorrere una notte nel deserto. Lo avevo già fatto in Australia, quando ero
andata a visitare Uluru. Era inverno, non avevamo tende e avevamo dormito in
sacchi a pelo militari sotto le stelle, col viso completamente congelato e il
terrore che un dingo da un momento all’altro venisse a sbranarci. Il sacco a
pelo militare impediva qualsiasi movimento, ma ammetto che pur essendo molto
freddo, non lo avevo patito.
In Marocco sarebbe stata un’esperienza diversa. Innanzitutto
perché era estate e perché il deserto africano suona decisamente più eccitante.
È stata un’esperienza piacevole, a parte la cena a base di tajine e il fatto
che per due giorni e due ore e mezza spese in groppa a un cammello io non mi
sia potuta fare la doccia né lavare la faccia. Non c’era acqua nella maniera
più assoluta. Che è una cosa ovvia, quando arrivi, ma la verità è che non ci
pensi prima di partire. E non farsi la doccia stando in mezzo alla sabbia, con
quasi quaranta gradi e cavalcando un cammello, non è esattamente un qualcosa che
non vedo l’ora di rifare.
Al risveglio dalla mia notte del deserto, ho
accettato esanime il fatto che mi stesse venendo l’herpes sul labbro superiore.
Nel corso della notte non ero riuscita a dormire: ho passato le prime ore in
dormiveglia sognando di essere attaccata da dei ferocissimi cani del deserto, alle
quattro e un quarto mi sono allontanata dall’accampamento per fare la pipì e
alzando gli occhi al cielo ho notato che il tappeto di stelle era semplicemente
mozzafiato. Ho pensato che mi sarei seduta sulla sabbia e sarei rimasta a
osservare un po’ quelle piccole e meravigliose luci, ma la verità è che mi ero
dimenticata gli occhiali vicino al cuscino e riuscivo a vedere solamente dei
pallini orrendamente sfocati.
La passeggiata sul cammello, poi, era un’altra attività che
mi incuriosiva parecchio. Mi sono preparata con la sciarpa in testa, mi sono seduta,
il mio cammello Bus-Bus s’è alzato ed è così iniziato il nostro viaggio verso l’accampamento
nel deserto. I primi minuti sono stati piacevoli. Era divertente. I cammelli
hanno delle zampe lunghissime, quindi mi sentivo altissima. Dopo circa
centoventi secondi ho iniziato a chiedermi come mai non avessimo noleggiato un
quad. L’ondeggiamento continuo avanti e indietro mi causava dolori ovunque: all’interno
coscia, alla vagina, alla schiena. La passeggiata, fra l’altro, è stata
parecchio lunga, con salite e discese sulle dune. Per fortuna non avevo modo di
annoiarmi, perché mentre il giapponese di fronte a me era impegnato a
riprendere tutto il panorama alle sue spalle, cioè io e Bus-Bus, con una Go-Pro
– il che mi costringeva a essere sempre sorridente e a non mostrare la
sofferenza fisica e la noia psicologia, il mio compagno di viaggio dietro di me
non ha smesso un secondo di gridare:
«Bèa! A te fa male? A me sta schiacciando le palle!»
«Bèa! Non mi sento più le palle!»
«Bèa! Questa cosa è orrenda, ho le palle che sono un purè!»
«Bèa! Non mi sento più le palle!»
«Bèa! Questa cosa è orrenda, ho le palle che sono un purè!»
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Ricordo che il giorno prima di partire per il Marocco ero
andata a pranzo con una inglese. Le avevo detto come fossi parecchio contenta
di andare perché avevo davvero bisogno di un po’ di sole.
«La nostra estate qui è stata ottima, dai!»
Non sapevo se limitarmi a guardarla, se ribaltare quel
tavolino, mettermi a ridere… Sì, l’estate 2018 in Inghilterra non è stata
atroce come me l’aspettavo, abbiamo avuto tantissimi giorni di sole e venti
gradi abbondanti. Ma già il fatto che io mi sia quasi messa a fare una conta
dei giorni di sole è indice di qualcosa che non va: in estate si annotano i
giorni di pioggia, perché si dà per scontato che in tutti gli altri faccia un
caldo boia e no, venti grandi non sono un
caldo boia. Andare a una grigliata di sera e dovermi portare il maglioncino
da mettere su alle otto perché inizia a far freschino e poi la giacca alle
dieci perché basta, ormai fa ufficialmente freddo, non è un’estate ottima.
«Certo, ma sai, parlo di quel sole così forte che ti entra
nelle ossa e te le rinforza.» Mi limito ad appuntare.
«Ho capito.» Ribatte lei.
Ma che cazzo vuoi capire.
C’è una cosa, infine, che mi dimentico spesso: io sono una
sfigata. Sì, estate, bello, sole, caldo, mare! Per me tutto ciò vuol dire solo
una cosa, e non è l’abbronzatura: vuol dire eritema. In Marocco, per fortuna,
non mi è venuto l’eritema come era successo in Norvegia, ma mi è venuto un
altro sfogo della pelle. Sudavo parecchio, faceva un caldo pazzesco e in quella
cavolo di città non c’era un angolo d’ombra manco a pregare. Mi sono ricoperta
di infinite e minuscole bollicine bianche. Non facevano male, non prudevano,
erano solamente abominevoli alla vista. Dopo una accurata ricerca su Google ho
scoperto che si trattava della Sudamina
Cristallina. Il sudore, in poche parole, non riusciva a raggiungere l’epidermide
e a uscire sotto forma di goccioline e mi sono ricoperta di bolle.
Herpes,
bolle, ustione di terzo grado alle tette e anche i marocchini preferivano
guardare le loro donne col velo e i vestiti neri fino alle caviglie. Poi la
gente mi chiede come mai su Instagram non metto mai foto di me durante i miei
viaggi – eh, raga, almeno un paio di Mi Piace mi fa piacere prenderli,
mettiamola così.
![]() |
«Mi raccomando, fammi una foto bella: prendi tutto il panorama, non tagliare...» |
Non era difficile immaginare le cause della sudamina
cristallina, eppure una di quelle elencate non era esattamente fra le classiche
che mi aspettavo.
Sovrappeso.
Senti, Marocco, vai a fare in culo va’.
B.
PS: In Marocco il succo d’arancia è buonissimo e Marrakech è
la città più instagrammabile del mondo. Giusto per aggiungere due cose positive a un post di fatto massacrante.
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