UN SALUTO A TRE DITA A STOKE-ON-TRENT, LA CITTÀ CHE (NON) PUÓ ESSERE NOMINATA.
Erano le 17:07, ora inglese, del 4 giugno 2018 quando ho
capito che dovevo andarmene. Esattamente dieci giorni dopo ero su un treno per
Leeds, per un colloquio.
Ero seduta in mensa, era un lunedì e facevo il turno dalle
11:30 alle 20, per cui la pausa pranzo? Cena? Merenda? Non arriva prima delle
quattro e mezza circa, cinque. Avevo la testa completamente immersa nel tuppeware
pieno di pasta pomodoro e parmigiano che avevo appena riscaldato nel microonde
accanto alla fontanella dell’acqua. Ho alzato lo sguardo e voltato il viso a
destra: a poche sedute da me, allo stesso tavolo lungo, c’era un collega
cinese. Stava voracemente mangiando una pizza surgelata con ananas e dadini di prosciutto
cotto, che anche lui poco prima aveva riscaldato nel microonde. Sorseggiava un
cappuccino di Costa preso alla macchinetta accanto ai frigoriferi.
Avevamo toccato il fondo?
Ma chi lo aveva toccato? Il cinese che aveva avuto il
coraggio di mettere una pizza surgelata (perlopiù ananas e cubetti di
prosciutto cotto) nel forno a microonde dell’ufficio, accompagnandola a un
cappuccino; o io, che alle cinque di pomeriggio mangiavo pasta al pomodoro
accanto a lui?
Probabilmente entrambi.
Sono atterrata a Manchester il 28 ottobre 2017, lasciandomi
alle spalle una Milano ancora inspiegabilmente ma favolosamente calda, un
gruppo di bellissimi amici che mi ha salutata mentre io avevo ancora una
bottiglia di mirto in mano, e un bravo ragazzo incomprensibilmente innamorato
di me. Mi ha accolta quello che avrei poi scoperto essere l’unico tassista
inglese di tutta Stoke-on-Trent, e la pioggia. Quel tipo di pioggia inglese, la
pioggia nebulizzatore. Il tassista ha immediatamente reso il mio viaggio verso
Stoke-on-Trent decisamente poco piacevole.
Il tragitto dura poco meno di un’ora: avremmo potuto
prendere l’autostrada, ma mi dice che a causa di alcuni lavori diversi tratti
hanno il limite di cinquanta miglia orarie, quindi avremmo fatto una strada
alternativa, in una serie di vie di campagna. Mi chiede se mi piacciano: in
effetti era tutto verde, c’erano tanti alberi e la vista era decisamente più
gradevole di quella che avremmo avuto dalla M6.
«Adoro queste strade perché non ci passa mai nessuno, anche
adesso – vedi? Siamo solo noi. »
In effetti non c’era nessun’altra macchina.
«Siamo soli qui, siamo soli. Tranquilli per i fatti nostri,» incalzava continuamente il tassista mentre le stradine si facevano sempre più
piccole e sempre più sperdute.
«Tranquilla, so dove sto andando. A proposito: sei davvero
bellissima. »
Ho iniziato a farmela sotto. Ho iniziato a pensare che io a
Stoke-on-Trent non ci sarei mai arrivata.
«Hai mandato un messaggio a tua mamma per dirle che sei
atterrata? Faresti bene a mandarglielo, nel caso in cui tu non l’abbia ancora
fatto. »
Era chiaro: stavo per morire.
«Quelle sopracciglia sono vere? Sono stupende, come te.
Anche se sei piccolina. »
E qui potrei cominciare a scrivere un post a parte.
Innanzitutto sulle mie sopracciglia, che non so perché finiscono sempre per
essere al centro dell’attenzione: raga, è vero, ho delle sopracciglia
foltissime, la piantate di mettermi in imbarazzo? Anche in Australia un ragazzo
mi aveva detto che la parte del mio viso che gli piaceva di più erano le mie
sopracciglia. Diciamo che mi sono sentita dare della cessa anche in modi meglio
celati. In secondo luogo, mi stava facendo complimenti in continuazione: spero
non avesse intenzione di approfittare sessualmente di me perché sarebbe stato
prima opportuno informarlo che ero mestruata. E non è che avesse beccato la
settimana sbagliata del mese, aveva proprio beccato la vagina sbagliata. Ho
infatti il ciclo una settimana sì e l’altra pure. Con in mezzo un paio di ore
di pre-ciclo in cui mangio approssimativamente quattro confezioni di Twix e mi
do dell’obesa da sola mentre scarto un altro cioccolatino. Infine, ma è ancora
divertente dirmi che sembro minorenne? Bah, ora che ci penso, credo sia un po’
come il mio cognome: mi divertirò a chiedere ai figli dei miei fratelli se si
scriva con l’apostrofo fingendo di non chiamarmi anche io così. Certe cose
fanno sempre ridere.
Purtroppo, però, quel tassista che prometteva benissimo non
m’ha accoppato e ha lasciato che la mia avventura a Stoke-on-Trent avesse davvero
inizio.
Sono stata a Stoke-on-Trent quasi un anno, ed è indubbiamente stato
l’anno in cui ho raggiunto più traguardi nella mia vita accademica e
lavorativa: ho iniziato il mio primo lavoro con contratto a tempo indeterminato
mentre a distanza scrivevo una tesi magistrale e portavo avanti il praticantato
per diventare giornalista e potermi iscrivere all’Ordine. Sono andata a vivere
da sola, ho iniziato a campare solo con i miei soldi e mi sono laureata col
massimo dei voti.
Erano i momenti in mezzo a tutti questi impegni e tutti
questi traguardi, però, che andavano malissimo.
Sono stata a Stoke-on-Trent quasi un anno, ed è indubbiamente stato
l’anno in cui ho raggiunto meno traguardi nella mia vita emotiva. I primi sei
mesi qui per me sono stati difficilissimi.
Una delle mie frasi preferite recita più o meno così: non sai mai quanto sei forte, finchè essere
forte è l’unica scelta che hai. Essere forte a Stoke era l’unica scelta che
avevo, eppure non ce la facevo. E non ne parlavo con nessuno. A nessuno dicevo
che odiavo alzarmi ogni mattina, lavarmi i denti e uscire. Finchè, finalmente,
sono arrivate le vacanze invernali e per Capodanno sono tornata a casa. Sono
andata al lago, a festeggiare coi miei amici.
«La Bea ha rovinato il Capodanno. Era negativa. »
Avevo gli occhi vuoti, il cuore vuoto, l’anima vuota: forse
avevo bisogno di qualcuno che mi chiedesse come stesse andando davvero a Stoke.
Beh, amici, so che mi state leggendo quindi vi chiedo scusa se ho rovinato il
Capodanno, non era mia intenzione. E no, non ero negativa, ero solo
tremendamente triste e sola, e in verità ero al settimo cielo all’idea di
essere di nuovo in mezzo a voi, ma forse non ho saputo dimostrarvelo come vi
aspettavate. O forse se fate certi commenti siete solo un po’ stronzi. Kisses.
Dire che a Stoke sono stata triste, poi, è molto impreciso.
E quando mi metto a scrivere odio l’imprecisione. L’imprecisione la lascio alle
frasi dette al vento, quelle frasi che vengono udite in modo diverso da ogni
orecchio. Quando scrivo, invece, io dico tutta la verità. Anche quella che
spesso non ho il coraggio di dire nemmeno a me stessa.
Ho commesso l’enorme e imperdonabile errore di partire per
Stoke con la stessa energia con cui ero partita per Sydney. Sydney mi ha
regalato il periodo più bello della mia vita e dall’Inghilterra avevo grandi
aspettative. A Sydney ho provato un infinito ventaglio di emozioni, in pochi
mesi m’è parso di vivere anni interi e la quantità e la qualità delle
esperienze australiane avevano raggiunto la perfezione assoluta. A Stoke oscillavo
fra stati di completa apatia e momenti in cui ho pensato di essere vicina alla
depressione – per come la può intendere un’ignorante come me che non ha
studiato né medicina né psicologia. Andavo in ufficio tutti i giorni, facevo il
mio lavoro mettendoci il massimo dell’impegno, ricevevo complimenti e
socializzavo con i colleghi ai quali ho iniziato a stare simpatica: non sono
mai stata sgarbata, ho sempre scambiato una risata con tutti e non ho mai negato
una chiacchierata davanti allo schermo del pc, eppure niente riusciva a
regalarmi un sorriso che fossi in grado di portarmi fino a casa. E, una volta a
casa, mi isolavo in un mondo che però non era il mio. Non è mai stato il mio.
Un mondo fatto di silenzi, segreti, vuoto.
Mi chiama mia mamma, una sera:
«Bebe, cosa mangi a cena oggi?»
«Niente,» rispondo io. «A cena non mangio quasi mai perché mangio tantissimo a pranzo in ufficio; quindi poi non ho fame.»
Uscivo, non spesso, ma uscivo. Mi trovavo a bere una birra
con i colleghi e tornavo a casa alle sei del mattino con ancora la vaschetta
del pranzo sporca nello zaino. Uscivo e mi divertivo da matti con i miei
colleghi, che ho imparato ad adorare. Andavamo a ballare o ci chiudevamo nel
salotto di qualcuno a chiacchierare ascoltando musica. Ma non ero davvero
felice, era una tregua da quel senso di vuoto che mi avrebbe riassalito una
volta stata sola di nuovo.
Una mattina d’aprile mi sono svegliata tardi e sono andata
in cucina. Ho aperto il mio armadietto e, insieme al tè, mi sono preparata non
una ma due fette di pane con la cioccolata. Ho addentato la prima, ho accennato
un timido sorriso e ho capito tutto. A un tratto ho capito tutto. Ho ripensato
alla telefonata con mia mamma e ho capito. Non era vero che non avevo fame.
Sarei capace di mangiare anche al mio stesso funerale. Non si è mai visto un
giorno nella mia vita in cui non sia affamata e pronta ad addentare qualsiasi
cosa di commestibile mi si presenti davanti. Io non volevo incontrare i miei
coinquilini in cucina. Avevo paura che mi chiedessero come stessi, che
notassero i miei occhi gonfi di lacrime, le mie occhiaie scure. Di notte,
quando riuscivo a dormire, dormivo male. E l’ultima cosa che avevo voglia di
fare era mettermi a conversarne in inglese con un tizio con cui condividevo due
stanze dell’abitazione. Quelle rare volte in cui a cena ho mangiato, l’ho fatto
o alle sei e mezza o alle undici e mezza: dovevo essere sicura di non
incontrare nessuno. Ho pensato, ho capito, e mi è venuta la pelle d’oca. Ho
stoppato The messenger dei Linkin Park che ascoltavo in loop da mesi, mi sono
vestita e sono andata in ufficio. Mi sono seduta e un supervisore ha iniziato a
guardarmi da in fondo alla fila:
«BB è felice oggi! Sei felice, BB? Sembri felice. »
Ero felice.
È iniziato così un nuovo periodo: il periodo in cui, ogni
giorno, un mio collega al suo arrivo alle quattro e mezza mi apostrofava sempre
così:
«Belly, ma tu sorridi sempre? »
Cos’era cambiato? Nulla. O forse tutto.
Ho smesso di guardarmi dal di fuori vivere una vita
insoddisfatta a Stoke e ho iniziato a vivere davvero dentro il mio corpo. Per
mesi, infatti, m’è parso di avere una seconda me in camera, su quel divano di
pelle nera sotto la finestra. Una me che guardava l’altra me rannicchiarsi
sotto le coperte, fissare il vuoto e sperare di prendere sonno in poche ore.
Una me impotente che soffriva dannatamente tanto guardando l’altra me incapace
di provare emozioni. È per questo che non direi che a Stoke sono stata triste:
la parte di me che riusciva a provare davvero qualche sensazione, inclusa la
tristezza, si era staccata dal mio corpo e mi osservava chiusa in camera mia. E
guardare me stessa impotente dall’esterno è stato il passatempo più penoso,
desolante, straziante.
Poi è arrivata una chiamata da Leeds, mentre ero a Milano.
Mi avevano presa. Potevo andarmene da Stoke, dovevo solo dire sì e accettare il
nuovo lavoro – peraltro più vicino ai miei interessi. Era il momento che
aspettavo da dieci mesi, eppure ho detto che ci avrei pensato e avrei risposto
via mail nei giorni seguenti.
Ma a che cazzo dovevo pensare? Se dire “sì” oppure “sììì!”?
Ho cominciato a pensare a come tutto è iniziato, qui a
Stoke, dopo che sono scesa dal taxi.
Dopo il primo giorno di lavoro io e la decina di persone che
ha iniziato con me siamo andati a prenderci una birra. Siamo andati in
quello che poi sarebbe diventato l’unico pub che frequentavamo perché vicino
all’ufficio. È un pub inglese molto sporco, dove servono birra a temperatura
ambiente in bicchieri appiccicosi. Regna sempre un fetore di urina e i
sottobicchieri non vengono cambiati dall’anteguerra. Ma è l’unico in zona. Io
lo odio. Se potessi lo raderei al suolo con una ruspa.
Ci sediamo a un tavolo, ognuno ha una pinta di fronte e un
ragazzo spagnolo si propone per fare un piccolo brindisi.
«Io ancora non vi conosco,» inizia, «ma quello che già mi
piace di voi, di noi, è che se siamo tutti qui adesso, significa che abbiamo
una storia da raccontare.»
Mi sono guardata intorno: eravamo due italiani, tre svedesi,
un brasiliano, un portoghese, un bulgaro, uno spagnolo e un argentino. Anche io
non sapevo nulla di loro, eppure, come me, anche loro avevano un capitolo della
loro vita che iniziava con un biglietto di sola andata per Stoke-on-Trent, la
città più brutta del mondo.
Ho pensato alle serate passate nella cucina dei vicini, con
uno svedese, un bulgaro e un argentino. A chiacchierare del nulla ascoltando Downtown di Petula Clark e Fit but you know it dei The Streets.
Ho pensato al sabato sera in cui quattro colleghi sono passati a
prendermi in taxi: aveva appena aperto una nuova pizzeria ed era davvero
italiana. Chi l’aveva già provata, diceva la pizza fosse buonissima. Il
tassista guidava come un pazzo e continuava a sbattere contro il marciapiedi. A
ogni curva salivamo con una ruota sul marciapiedi e siamo arrivati a
destinazione che, sebbene ancora a stomaco vuoto, dovevamo già vomitare. Per
prima cosa ordiniamo da bere, pronti a impregnarci il baffo di birra. Una parte di noi
probabilmente si stava già gustando non dico una Menabrea o una Baladin, ma
perlomeno un bel Morettone ignorante da 66.
«Non abbiamo la licenza per servire alcolici, mi dispiace,» ci smonta subito la cameriera.
Ci guardiamo, non diciamo nulla.
«Beh, allora, quante coche?» Rompe il silenzio qualcuno.
«No, non abbiamo nemmeno la Coca-Cola,» incalza subito la
cameriera. «Volete un Chinotto?»
«Quanti Chinotti e quanti succhi al melograno?» Chiede
l’avvocato. «Che il nostro pazzo Saturday night a Stoke abbia inizio!»
La pizza alla fine era davvero buona, e se devo dire la
verità io il Chinotto lo adoro.
Il problema vero dei Saturday night, ma anche Monday e
Thursday e qualsiasi giorno a Stoke, non è tanto il trovare cosa fare in prima
istanza, perché benché schifoso, un bar in cui entrare lo si può anche trovare
o mal che vada andiamo al Tesco prendiamo due casse di birra e si va a casa
di qualcuno. A Stoke il problema è trovare cosa fare in un secondo momento,
perché alle undici e mezza, mezzanotte qui tutto chiude. Dal bancone suonano
una campana che avvisa i clienti che hanno pochi minuti per ordinare l’ultimo
drink, prima che le luci si spengano. E allora le possibilità sono due: o si va
a casa, o si va al casinò. È così che ho scoperto la passione degli inglesi per
il gioco d’azzardo – perché quelle fogne di casinò sono gli unici posti che
rimangono aperti fino a tardi, che rimangono aperti sempre. Ci sono andata
qualche volta. Non ho mai giocato a nulla, né mi sono mai divertita. I casinò
di Stoke mi fanno proprio schifo.
Ho pensato a tutti i barbeque organizzati non appena in
cielo c’erano meno di trentanove nuvole e il termometro segnava più di sedici gradi. Non importa che turno facessimo al lavoro, quanto fossimo stanchi o
quanto in realtà non conoscessimo il proprietario di casa:
«Bella, ci vediamo là. Anzi, mi mandi il postcode se lo
sai? »
Bastava suonare il campanello con qualche birra in mano e
unirsi alla festa, dove non mancava mai Gigi D’Ag e dove comunque il Veneto
vince sempre.
Ho pensato a quella festa a cui s’era imbucato uno
straniero:
«These are
eight eight three. »
Stavamo ascoltando gli 883 alle quattro del mattino e
sentirli chiamare eight eight three mi aveva fatto ridere per mezz’ora.
«Embè, Beatrì, come li vuoi chiamare in inglese?»
Ho pensato all’unico Bed and Breakfast che io abbia mai
visto a Stoke-on-Trent, è sulla strada da casa mia al centro di Newcastle
Under-Lyme e su una finestra accanto alla porta ha sempre dominato, per dieci
mesi, la scritta “No vacancies”. Ma come no vacancies? Possibile che non ci
fosse mai una stanza libera in quel cesso di posto? Che poi, a dire la verità,
sembrava anche l’unico posto pseudo carino. La prima volta che l’ho visto ho
pensato che se mai i miei genitori fossero venuti a trovarmi, avrei consigliato
loro di andare lì. Ma non avrebbero trovato posto – perché “no vacancies” tutto
l’anno santo il Signore.
Newcastle Under-Lyme: quante volte mi sono sentita dire:
«Newcastle?
Dai ma Newcastle la conosco, è famosa come città! Ma quindi tu vivi lì vicino?»
No, amici, no. Spegnete MTV e dimenticate Geordie Shore. Poco dopo essere
arrivata a Stoke-on-Trent ho scoperto una cosa tremenda: una cosa che mi ha
immediatamente fatto odiare questo posto ancora di più. Stoke-on-Trent non è
una città. È l’insieme di cinque paeselli merdosi, uno più sfigato, sporco,
disagiato e semplicemente brutto dell’altro. I nomi manco li so tutti.
Originariamente erano sei, e c’era anche Newcastle Under-Lyme. Newcastle
Under-Lyme è vagamente il più carino: e con questo intendo dire che i drogati
si sdraiano a smaltire la dose nei vicoletti e non si accasciano nelle piazze
principali – come se poi a Stoke-on-Trent ci fossero delle piazze principali.
Newcastle Under-Lyme ha ottenuto l’indipendenza e non fa più parte di
Stoke-on-Trent ma no, non è la città grande a Nord dell’Inghilterra, dove si fa
festa ogni sera, dove ci sono università, locali fighi e probabilmente anche
cose incredibilmente fuori dal comune come un municipio, una gelateria e pub
che servono birra fresca anche dopo le undici e mezza di sera. No, non vivevo
lì vicino. Vivevo dove l’attività più eccitante dei giorni off era andare da
Pundland a comprare merendine a una sterlina – ma prima delle cinque eh, perché
poi chiude. A Stoke-on-Trent, infatti, solo alcuni supermercati rimangono aperti
dopo le cinque e mezza/sei.
Ho pensato ad Haydon House, casa mia per dieci lunghi mesi.
Ho pensato ai miei dodici coinquilini e alla nostra cucina in comune: ogni mio
piatto aveva sempre un sapore in più – quello della merda che lo stronzo che
aveva usato la padella prima di me aveva lasciato incrostata senza pulirla
bene. Ho pensato a quel giorno in cui ho cucinato delle banalissime polpette al
sugo. È entrato in cucina il mio coinquilino estone, come sempre immerso in una
nube di profumo di Abercrombie (che pensavo avesse smesso di andare di moda nel
2010), ha allargato le narici e ha gridato:
«Caspita, che buon profumino? Che ricetta è?»
Poi ha aperto il frigo, ha impugnato un pentolino da latte e
si è preparato fusilli pollo e maionese.
Ho pensato a tutte le volte che ho messo in ordine i piatti,
passato la spugna sopra i tavoli, scosso le briciole dalle sedie e, soprattutto, lavato gli
strofinacci. Ho pensato al giorno in cui ho incontrato il mio coinquilino
svedese.
«Bea, hai mica visto gli asciugamani della cucina? »
«Li ho appena messi in lavatrice, se vuoi ti presto dello Scottex.
«Nooo, ma quindi sei tu che li lavi?
No, si lavano da soli ogni settimana.
«… Sì…»
Lo fisso.
«Non sapevo chi fosse. Eppure li trovavo sempre puliti. Sei
una leggenda. »
Me ne sono andata ormai da una settimana e sono molto preoccupata per le condizioni di quegli strofinacci, lo ammetto.
Ho pensato alla festa organizzata per la fine dei mondiali:
non abbiamo nessun francese in ufficio, quindi non era un’occasione per gioire
effettivamente di una vittoria, no. (Anche perchè chi minchia esulta se vince la Francia?) Noi eravamo felici perché, lavorando in una
azienda di scommesse, avevamo chiuso un periodo colmo di stress. Un po’ come un
milanese alla fine del Salone del Mobile, dai. Eravamo italiani, spagnoli,
greci, bulgari, svedesi, polacchi, messicani e chi più ne ha più ne metta,
avevamo tutti un drink in mano – e il fatto che il mio l’avesse ordinato un
veneto non era un buon segnale (o forse era un segnale ottimo), eravamo tutti sorridenti e ci guardavamo non
tanto come colleghi, quanto più come amici. Poi è partita The riddle, di Gigi
D’Ag. Ho pensato a noi italiani che ci stringiamo in cerchio, ci abbracciamo e
iniziamo a saltare. Ho pensato che, cazzo, a me quella gente piaceva davvero.
Ho pensato al Ponte della Morte. Quello sotto il quale
passavo ogni giorno per andare in ufficio. Non mi ricordo chi mi abbia
insegnato il nome Ponte della Morte facendo riferimento a quel tratto di
strada, ma ricordo che l’avevo immediatamente fatto mio, e avevo anche iniziato
a nominarlo nei messaggi vocali alla mia migliore amica, che poi mi chiedeva a
sua volta come fosse andato l’attraversamento del Ponte della Morte. Il Ponte
della Morte è in realtà un sottopasso molto scenografico: lo circondano il pub
che puzza di piscio, una discarica di tir, un ruscello pieno di siringhe,
carrelli del supermercato, sacchetti di plastica, piante morte. È difficile
essere soli sotto il Ponte della Morte. Se sei fortunato lo attraversi con un
collega, altrimenti puoi trovarci chi si sta semplicemente girando una canna,
ma anche chi ha in mano un cucchiaino e una siringa. Ma i miei incontri
preferiti sono due. Il primo è avvenuto domenica 29 ottobre 2017, me lo
ricordo. Stavo andando da Tesco a fare la spesa, ero arrivata da poco ed ero
ancora su di giri. Erano, credo, le due del pomeriggio. Sotto il Ponte della
Morte c’erano due ragazzi, anzi, due ragazzini. Saranno stati due liceali. Lei
era chinata sopra di lui, mentre lui era seduto ai piedi della ringhiera che
protegge dal ruscelletto-cassonetto. Lei gli stava praticando, con profonda e
ammirabile dedizione – tenendo conto che non s’era nemmeno accorta della mia
presenza, del sesso orale. Quello, insomma, era stato il mio benvenuto a
Stoke-on-Trent. Il secondo incontro preferito, invece, è quello con uno
Stokkese puro sangue. L’ho incontrato spesso, sia da sola, sia con altri
colleghi. Era sempre ubriaco, andava a piedi da Hanley (uno dei centri di
Stoke-on-Trent, il peggiore, per essere precisi) a Newcastle Under-Lyme. Era
sempre ubriachissimo, con una birra in mano e altra nei sacchetti di plastica
che si portava appresso. Era sempre stra ubriaco marcio e si pisciava sempre
addosso. Aveva sempre i pantaloni chiazzati all’altezza del birillo e l’alone
arrivava fino a metà coscia. L’ho incontrato in piedi, sdraiato sull’erba,
seduto sul guardrail. L’importante, però, era incontrarlo e sapere che stava
facendo i suoi passi quotidiani. Ho pensato a quanti messaggi vocali ho mandato
alla mia migliore amica passando sotto il Ponte della Morte e dicendole:
«Eccoli, Carli, ci sono i soliti drogati… O porca troia, Carli, aspetta uno mi sta seguendo. »
Nessun drogato mi ha mai seguito per più di cinque passi, in realtà. Probabilmente andava solamente a recuperare qualcosa che aveva nascosto alla fine del sottopasso. Ma nella mia testa tornavano vividi tutti i viaggi fatti sulla metro notturna a Milano, mezza nuda su un tacco tredici: non ho mai avuto paura di niente e di nessuno. Anzi, la metro notturna è uno dei motivi per cui amo Milano. Il Ponte della Morte, invece, mi ha spaventata qualche sera, lo ammetto.
Ho pensato a tutti i post che ho scritto su Facebook
parlando male di Stoke-on-Trent, la città che non poteva essere nominata:
Stoke-on-Trent era ed è il nome della città in cui ho fallito maggiormente,
nello stare bene, nel prendermi cura di me, nel rendermi felice. Stoke-on-Trent
è il nome della città che quando ho potuto finalmente lasciare mi ha fatto
venire un nodo alla gola. Stoke-on-Trent era la mia comfort zone: anche nello
stare male, era il mio posto, l’avevo fatta mia con tanta, tantissima fatica. E
benchè sapessi che non sarebbe stata in grado di farmi stare mai davvero bene,
non volevo andarmene. Stoke era per me una di quelle relazioni malsane che non
vuoi troncare, perché ricominciare tutto da zero fa ancora più paura che
soffrire. Perchè a soffrire ci si abitua.
Ho pensato a tutte le volte che mi sono sentita dire che
sono ambiziosa. Non lo sono, non lo sono nemmeno un po’. Ho un grandissimo, un
enorme e forse eccessivo senso del dovere. Me ne sono andata da Stoke non perché
io voglia e possa fare di più, ma perché io devo fare di più. Lo devo fare per
mio papà che ha pagato tutti gli studi, per mia mamma che mi ha sempre detto
che ero stata bravissima, anche quando avevo preso venticinque e non trenta.
Così ho dato le dimissioni, ho fatto le valigie e sono salita su un treno.
Dal treno guardavo per l’ultima volta quegli edifici che
tante volte mi hanno fatto pensare che porca troia, le vacanze erano finite ed
ero tornata, quegli edifici che non rivedrò mai più.
«Tornerai a trovarci?» Mi ha chiesto il mio coinquilino
svedese.
«Non tornerò mai più a Stoke, Casper,» gli ho risposto
sinceramente.
«Posso venire a trovarti con Gianluca? E balliamo ancora gli Oasis?»
«Vi sto già aspettando. »
Ho pensato a tutti i soldi che ho guadagnato in questi dieci
mesi, ho pensato alla Norvegia, che non mi sarei mai potuta permettere se fossi
rimasta a lavorare a Milano. Ho pensato alle frasi del film “The wolf of Wall
Street”:
«I soldi non vi comprano solo una vita migliore, cibo migliore,
macchine migliori, fiche migliori. Vi rendono anche una persona migliore.
Potete essere generosi con la Chiesa, o con il partito politico che preferite,
potete anche salvare quel cazzo di gufo maculato. Io ho sempre voluto essere
ricco.»
Anche io ho sempre voluto essere ricca. Eppure Stoke-on-Trent mi ha insegnato la lezione più importante: i soldi no, non fanno la felicità. I soldi a Stoke-on-Trent mi hanno comprato viaggi: in Irlanda del Nord, nella Repubblica d’Irlanda, in tutta la Norvegia, in Italia, in giro per tante città dell’Inghilterra e anche uno in Marocco – chissà se ci andrò davvero, lì. E sì, è vero, i viaggi portano tanta felicità, perlomeno a me. Ma non quando sono una fuga disperata da una realtà che ci sta mangiando vivi. Scrivevo sul calendario il conto alla rovescia, facevo il conto dei giorni che mi separavano dal volo successivo, vivendo in un limbo di continua attesa. E questa no, non è felicità.
Ieri pomeriggio, verso le quattro, ero seduta in un pub di
Leeds. Si chiama Tapped e fuori c’era il sole. Stavo bevendo una birra scura di sei
gradi e con me c'erano altri cinque italiani. Fissavo una donna seduta accanto alla
finestra. Le finestre erano tutte aperte e ci si poteva sedere anche fuori.
Sulla testa bionda della donna batteva il sole e i suoi capelli parevano d’oro.
Dietro di lei l’insegna di un altro pub, verde. Fuori c’era il vento. Mi
piacevano i colori e non riuscivo a smettere di fissare il volto di quella
signora: le gote rosse, le labbra bianche di schiuma, i capelli raccolti dorati, il verde dietro, il blu del
cielo e il grigio delle immancabili nuvole. Starò bene a Leeds, ho pensato per
la prima volta.
Ciao Stoke-on-Trent, un po’ mi mancherai, lo ammetto. Ma solo
perché ho conosciuto persone meravigliose. Tu fai e farai sempre schifo alla
merda. E sai, a volte ho quasi sperato che qualche mio amico venisse davvero a
trovarmi. Sarei stata molto imbarazzata, sì, ma almeno avrebbe visto coi suoi
occhi che tutto quello che scrivevo corrispondeva alla realtà.
Sono arrivata a Leeds il 13 agosto 2018, lasciandomi alle spalle una Stoke-on-Trent già disgustosamente ma comprensibilmente fredda, un gruppo di bellissimi amici che mi ha salutata mentre io avevo ancora una pinta in mano, e un bravo ragazzo incomprensibilmente infatuato di me, che scrive poesie.
E ricomincio daccapo, ancora una volta.
B.
5 commenti
All I can see after reading this is that you are really brave. I wish you luck in Leeds. I'm sure you can success here, you have what it takes to be succesful.
RispondiEliminaThank you very much, I really appreciate these words. I hope I will!
EliminaRileggendo questo mi sono ritrovato in ogni singola sillaba. Posto a dir poco lugubre,ma che a me ha lasciato tanto in termine di crescita personale e di ricordi a livello emotivo. Buona fortuna a Leeds, sono sicuro che come citta' ti sapra' dare tante soddisfazioni ( soprattutto nei fine settimana)
RispondiEliminaAnche a me Stoke ha aiutato tanto a crescere e soprattutto mi ha fatto conoscere persone fantastiche. Ma, se posso dirti la verità, non augurerei a nessuno di andarci, nonostante tutto quello che ho imparato lì su me stessa.
EliminaIo ho vissuto a Coventry ti capisco
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