MAROCCO: FIGA CHE CALDO


Partiamo dal presupposto che secondo me i Paesi dove non si può bere l’acqua del rubinetto non hanno senso di esistere, ma io sono sempre troppo drastica. Va anche considerato che fino ai vent’anni ho fermamente pensato non ci fosse bevanda più squisita dell’acqua del rubinetto vicino alla porta dell’antibagno della mia vecchia casa. Poi abbiamo traslocato e non ho purtroppo più avuto modo di gustarla, ma rimane impresso nella mia memoria il ricordo di quell’acqua incredibilmente buona, deliziosa, perfetta. Mi rendo conto, d’altro canto, che così ragionando si eliminano dalla cartina moltissimi luoghi che invece meritano decisamente una visita, pur dovendosi munire di bottigliette d’acqua del supermercato.

Aggiungiamo inoltre il fatto che dopo un anno nel Regno Unito la mia sopportazione al caldo è praticamente pari a zero, e già che ci siamo anche il fatto che mi ero appena trasferita in una nuova città e non stavo capendo assolutamente nulla di quello che stava succedendo nella mia vita: in ufficio capivo pressoché nulla, per tornare a casa sbagliavo ogni singolo giorno la fermata del bus e perdevo la mia e stavo in piedi fissando i negozi muoversi e la mia casa allontanarsi sempre di più, e riuscivo a scegliere sempre il giorno e l’ora sbagliata in cui andare a fare la spesa – il giorno senza manco un’offerta e l’ora più affollata. Insomma, potrà sembrare assurdo, ma non ero assolutamente pronta per andare in Marocco. 





Aggiungiamoci che dopo un anno e mezzo in cui il novanta per cento dei miei viaggi li avevo fatti in solitaria: dalla Bulgaria, alla Romania, e poi il Portogallo, il Lussemburgo, l’Irlanda del Nord e la Norvegia e ancora l’Irlanda… Di adattarmi di nuovo ad avere un compagno di viaggio non avevo veramente voglia: partivo già col cazzo girato alla sola idea di dover scendere a compromessi e non poter fare quel cavolo che volevo io e solamente io. D’altro canto, però, non ricordavo nemmeno l’ultima volta in cui mi fossi sdraiata in costume, con i miei occhiali da sole preferiti in faccia, a prendere il sole senza pensieri.






Ho lasciato l’Inghilterra il 13 settembre alle sei e dieci di mattina, congelando. Indossavo un paio di pantaloni lunghi, una maglietta, una felpa e una giacca e mentre dall’hotel di Stansted (ecco: viaggiare in compagnia ha avuto un vantaggio, non ho passato la notte accampata in aeroporto ma ho dormito in hotel) raggiungevo il terminal, dalla mia bocca usciva il fumo quando respiravo. Quel fumo che a Milano mi ha sempre fatto pensare: “Ci siamo, Bea, è arrivato il freddo. È arrivato ufficialmente.” Probabilmente qualsiasi città in Italia ha un clima migliore di Milano, dove in inverno nevica, c’è la nebbia e fa un freddo becco e dove in estate ci sono trentotto gradi, non c’è un filo d’aria e le scarpe scavano le impronte nell’asfalto che ha ormai raggiunto la consistenza e la temperatura di una colata lavica. Quindi sì, il clima a Milano è abbastanza una tortura in due stagioni su quattro, ma perlomeno l’inverno non inizia il 13 settembre.

Sono atterrata a Marrakech, dopo aver dormito indisturbata per tutte le tre ore abbondanti di viaggio, assalita da un vento incredibilmente caldo. Ho provato a guardarmi intorno ma nessuno mi stava puntando un fon addosso. Il sole era accecante e dopo un anno in Inghilterra ho anche osato pensare fosse quasi fastidioso, essendo solamente le dieci e mezza del mattino. Ho aperto la bocca e con la letale fiatella post pennica su Ryanair ho provato a respirare: niente fumo. Non sapevo bene se fossi atterrata in Paradiso (il sole! C’è il sole! Non piove!) o all’Inferno (tutto molto bello ma ‘sto caldo mi sta già uccidendo), ma poi mi sono ricordata che qualsiasi posto che non sia l’Inghilterra è l’Eden, quindi mi sono tranquillizzata e ho iniziato a pensare che non vedevo l’ora di arrivare in centro, scoprire il cibo locale e tuffarmi in piscina.





All’uscita dell’aeroporto ci aspettava la navetta del riad, che ci avrebbe portato alla Medina, dove soggiornavamo. Ci siamo seduti comodi e ci siamo lasciati andare alla sofferenza marocchina più pura: il caldo soffocante che entrava dai finestrini e il fetore altrettanto soffocante che arrivava dalla strada. Ancora non lo sapevo, ma avrei dovuto abituarmi in fretta a entrambi, perché sarebbero stati i miei più fedeli compagni di viaggio. 





Durante il breve tragitto che separa l’aeroporto di Marrakech dal centro della città non ho mai smesso di fissare la strada e la sua fauna. Era una giungla: un’orrenda e caotica giungla. Tutti guidano come dei pazzi, il nostro autista ha rischiato di accoppare almeno un paio di motociclisti, ma la verità è che nessuno era spaventato, in quella giungla. Tutti apparivano estremamente sicuri delle manovre folli, da carcere a vita che stavano eseguendo. Come se le corsie non avessero un senso di marcia: ognuno andava dove voleva, come voleva, quando voleva. Ho provato a immaginarmi guidare lì con la mia Panda color cappuccino, ma la sola idea mi ha fatto venire da piangere quindi ho desistito. Quei pochi in scooter che portavano il casco, ce l’avevano su al contrario: erano davvero pochi, ma comunque mi incuriosiva come appunto quei pochi avessero tutti un casco con una piccola visiera, che indossavano al contrario. Il risultato era l’appena menzionata piccola visiera che andava a incastrarsi fra le vertebre quattro e cinque causando una paralisi irreversibile, e il laccio del casco che segava completamente le guance. Ho pensato che i marocchini non sapessero che esistono i berretti con visiera che possono essere portati al contrario senza incorrere in particolari lesioni fisiche, ma forse su Instagram il casco al rovescio ti fa prendere un sacco di #likeforlike.

Dovete sapere, inoltre, che in Marocco ci sono tantissime tipologie di motorini che in Italia non ho mai visto. Non nomino nemmeno l’Inghilterra perché, poverini, piove un giorno sì e l’altro pure e quando lo usano ‘sti poveri cristi un bel rello? Mai. La maggior parte degli scooter marocchini assomiglia al nostro Ciao: si tratta quindi di motocicli di piccole dimensioni, poco ingombranti, con partenza a pedale e non so quale sia il termine tecnico nel mondo dei motori, ma sono dei motorini stra magri (dite che il termine preciso è proprio stra magri?). I marocchini ci viaggiano in tre, tutti rigorosamente senza casco. Quando li ho visti in tre senza casco su un Ciao ho immediatamente pensato: “E i napoletani muti.”

Arriviamo al riad. Il riad è l’abitazione tradizionale delle medine marocchine. Ha senso, dunque, quando si viaggia in Marocco, soggiornare in un riad piuttosto che in un classico hotel. I riad sono tutti estremamente colorati, hanno una piscina al centro del cortile interno e sono tappezzati di piastrelle dagli incantevoli disegni. La ricerca del riad non era stata semplice, innanzitutto perché quando viaggi con un’altra persona ti aspetti che ti dia un minimo una mano o perlomeno ti indichi una fascia di prezzo all’interno della quale vorrebbe stare, ma è anche vero che quando viaggi con una persona che guadagna il doppio di te (quando anche tu avevi un buono stipendio) e il triplo di te (quando non sai ancora perché ma hai accettato di cambiare lavoro e ridurre il tuo guadagno mensile), è probabile che quella che deve stare attenta ai costi sia principalmente tu. La ricerca non era stata semplice anche perché nella Medina di Marrakech presumo ci siano più riad che pub in una normale città inglese – e ho detto tutto. E sono tutti fottutamente uguali: dalle foto non capisci quanto sia effettivamente grande quella piscina, se sia uno sputo, una palude o una vasca da cinquanta metri con blocchi di partenza e nuovo record del mondo! Phelps conquista l’oro nei duecento farfalla! Certo, ci sono quelli che fin da subito appaiono nettamente più belli degli altri, ma partivo dall’idea che per andare a mangiare couscous non avessi particolare voglia di spendere un capitale. Così, dopo approssimativamente otto ore di ininterrotta ricerca, ho trovato il riad che volevo prenotare. Lo avevo scelto principalmente perché invece di avere la piscina al centro del cortile interno, come da tradizione, ce l’aveva sul tetto. Pensavo infatti che non avevo nessuna voglia di spendere trecento sterline di volo per fare il bagno all’ombra, accanto ai quattro turisti stronzi che fingevano di apprezzare il diciottesimo tè ustionante alla menta offerto dai marocchini. Avere la piscina circondata da quattro mura alte due o tre piani, infatti, significava avere il sole solamente intorno alle ore dodici. E se voglio vedere il sole cinque minuti al mese rimango in Inghilterra. Ho così pensato di prenotare questo riad con la piscina sul tetto: era il più economico di tutto Booking.com e di foto della piscina, in realtà, ce n’era solamente una – quindi non è che si capisse molto cosa ci avrebbe accolti. Ma dopo essermi trovata un senzatetto nel letto dell’ostello a Bergen, in Norvegia, nulla mi fa più paura.

«Allora, prenotiamo questo?» Chiedo via WhatsApp.
«Per me va bene. Domani chiedo le ferie al mio capo.»

Stavo organizzando un viaggio con una testa di minchia che non aveva ancora richiesto le ferie. Va anche detto che solo nel mio vecchio dipartimento il tempo d’attesa per l’approvazione o meno delle vacanze era di approssimativamente ventuno giorni, tant’è che quello che poco sopra s’è beccato della testa di minchia (nel dubbio sempre giustamente), il giorno dopo ha effettivamente richiesto e ottenuto le ferie, e abbiamo prenotato il riad.

Ho quindi prenotato il riad più economico mai visto sui siti di viaggio, e l’ho fatto quando ancora il mio stipendio era così alto che avrei potuto comprarmi tutto quel puzzolente Marocco. Meglio così, perché alla fine quel riad l’ho pagato quando il mio stipendio era decisamente cambiato e oggi forse non mi potrei permettere di acquistare nemmeno Vicolo Corto a Monopoli.

Il Marocco è stato il primo Paese in cui camminando per le strade non ho incontrato italiani ogni quattro passi. Anzi, a dire il vero, di italiani ne ho incontrati solamente due. È stato molto strano, lo ammetto, perché nonostante siamo il popolo più vecchio e povero d’Europa, siamo sempre in giro per il mondo: si chiama gioia di vivere, presumo, e in Italia checché se ne dica, sappiamo cosa sia. Ovunque sia andata, infatti, ho sempre, sempre beccato italiani in giro. A passeggio riconoscevo sempre gli accenti, ogni parola che capivo mi strappava un sorriso. In Marocco, invece, nemmeno un porcone. Eh già. Ho infatti incontrato solamente una coppia di ragazze durante la gita nel deserto. Mentre tutto il pullmino provava a dormire, quelle due rompicazzo non hanno smesso un secondo di chiacchierare – e nemmeno raccontavano aneddoti succosi o gossip su persone che non conosco ma di cui mi sarei comunque interessata, no, quelle due facevano dei giochi.

«Nomi di animali che iniziano con la lettera esse.»
«Serpente.»
«Squalo.»
«Storione.»
«Salmone.»

E poi il gioco sarebbe dovuto finire, rapido e indolore, perché non ci sono altri stramaledetti animali con la esse, ma no, loro non volevano arrendersi alla realtà dei fatti e hanno passato un’intera ora a cinguettare:

«Ce ne sono altri?»
«No.»
«Dici?»
«Credo di no.»
«Forse qualcuno…»
«Forse qualcuno c’è.»
«Ti viene in mente qualcosa?»
«No, ma devono essercene altri.»

Dal mio sedile non sapevo se gridare scimmia! Stambecco! Sanguisuga! Stella marina! Scorpione! Sogliola! Seppia! Scimpanzé! Sciacallo! Salamandra! Scoiattolo! Scrofa! Scarabeo! Oppure un poderosissimo “Sileeenzio!” a mo’ di Silente nella mensa di Hogwarts.  

Era però pieno di spagnoli, che in una città dove, chi non sa l’inglese, può provare a bofonchiare qualcosa non dico in arabo, ma perlomeno in francese, parlavano a tutti, senza ritegno o imbarazzo, in rapido e fluente spagnolo. I marocchini dei suk, a dirla tutta, pur di riuscire a vendere qualsiasi cosa hanno di fatto imparato qualsiasi lingua e penso siano esperti anche nella scrittura del cinese, ma nei ristoranti la situazione era un po’ differente. Non so se gli spagnoli dessero per scontato che la gente locale capisse perfettamente la loro lingua da pasito a pasito, suave suavecito despacito per via della vicinanza geografica, fatto sta che non facevano il minimo sforzo per balbettare quelle quattro parole in inglese che eran sufficienti per trascorrere una piacevole ed educata serata al ristorante ordinando un piatto a caso del menù – che tanto non si capiva una sega di quel miscuglio di cose a caso che mettono nei piatti in Marocco.





Il cibo marocchino merita una menzione particolare. Il ragazzo da cui andavamo a comprare l’acqua ogni giorno ci ha raccontato di come fossimo stati fortunati a beccare trentacinque gradi, perché lì si arriva facilmente a cinquantasei durante il Ramadan quando, cioè, quei poveri disgraziati non possono né mangiare né bere. Bene: questa quindi è la premessa per far capire quanto cazzo faccia caldo in Marocco.

Oltre al tè alla menta servito rigorosamente a temperature infernali e la cui assunzione ti causa la completa e permanente ustione delle vie orali rendendole poi incapaci di svolgere nuovamente le loro normali e biologiche funzioni, i piatti principali del Paese sono due.

Il primo sono le tajine (principalmente di pollo, ma non solo). Si tratta di una pietanza berbera servita nell’omonimo piatto di terracotta – che forse viene utilizzato proprio come pentola, vista la forma. L’aspetto esteriore è quello di una piramide di terracotta: il cono superiore viene poi sollevato dal cameriere che ti serve solamente il piatto di terracotta all’interno del quale vi è un ammasso informe di cosce di pollo da disossare, verdure bollite e spezie di qualsiasi tipo. Ammetto che il sapore non è male, se mangiato una volta o al massimo due. Alla fine della seconda volta il sapore ha già rotto la minchia. La forma piramidale del piatto completo fa sì che il cibo mantenga sempre la temperatura di cottura: e quando fuori ci sono novantotto gradi, cosa c’è di meglio di gustare una bella coscia di pollo gialla accuratamente tenuta a centosedici gradi e servita in una piramide di terracotta (che a questo punto mi sentirei di paragonare più a un vulcano in eruzione) che non si raffredderebbe manco al Polo Nord? 





Il primo giorno in Marocco pensi che non ci sia nulla di meglio, perché wow! Stai assaggiando le vere tajine! Poi inizi a renderti conto che quando Geppetto si mette a mangiare i torsoli e le bucce delle tre pere che Pinocchio voleva rigorosamente sbucciate, forse si stava gustando un pasto più gourmet del tuo. 

Un’altra cosa che mi urtava parecchio delle tajine di pollo era la scelta della coscia. Porca troia, sono in un Paese sporchissimo, non mi lavo le mani da ieri mattina, mangiando una coscia di pollo con le posate metà della carne rimane attaccata alle ossa ma allo stesso tempo proprio perché non mi lavo le mani da ieri mattina non sono particolarmente propensa a usarle adesso… E non mi puoi dare un bel petto? È in Marocco, quindi, che ho iniziato a pensare che forse quelli che vanno sempre in giro con quelle boccettine di igienizzante per le mani non sono completamente dei menomati mentali, sono semplicemente forse stati a Marrakech prima di me.

Il secondo piatto tipico è un piatto che a me personalmente piace molto. Si tratta del couscous. Mi piace con le verdure, col pesce, con la carne, mi piace freddo e mi piace tiepido. In Marocco lo servono bollente. Allora: posso capire che servire una coscia di pollo fredda con verdure bollite fredde possa non essere il massimo della prelibatezza, ma porca miseria: perché se fuori ci sono centoventinove gradi non mi fate un bel couscous fresco, a mo’ di insalata? No, anche il couscous viene servito in un piatto di terracotta che non smette mai di emanare fumi caldi – e guardando bene si potrebbero forse scorgere anche lapilli. Di questa cosa non sono riuscita a capacitarmi per tutta la vacanza e tuttora sono piuttosto disorientata.




Il couscous viene servito con le classiche e irresistibili verdure bollite. E l’Inghilterra è per ora l’unico altro Paese in cui ho visto servire le verdure sempre e solo rigorosamente bollite. A vantaggio del Marocco c’è da dire che le verdure erano effettivamente buone e avevano un sapore, mentre mangiare verdure bollite in Inghilterra equivale ad addentare una natura morta dipinta su tela: insapore fino a causare fastidio.

Dopo circa un paio di giorni, dunque, tutti i piani culinari sono cambiati e io e il mio compagno di viaggio abbiamo iniziato a cercare su TripAdvisor consigli per i migliori ristoranti in cui mangiare non marocchino in Marocco. Abbiamo mangiato libanese, senegalese e tante cose a caso: buone, cattive? Non infuocate, ecco qual era il requisito principale, per non dire unico.

La permanenza all’interno della Medina è stata, in linea generale, fastidiosa. Se per strada non vi è alcun codice da rispettare, nei vicoletti della Medina le regole per i marocchini in motorino sono principalmente due:
  1. Hai sempre la precedenza;
  2. Non usare mai i freni.

I vicoli, in quanto tali, sono ovviamente piuttosto piccoli e stretti, e lo spazio si fa sempre più angusto man mano che i negozietti aumentano. La gente si ferma, chiacchiera, osserva, e quelli corrono in motorino come dei pazzi, incuranti dei turisti verso i quali riversano un viscerale e nemmeno un po’ celato odio. Ti vengono addosso, non chiedono scusa, non lasciano passare nessuno, che siano donne locali, donne straniere, bambini. Guidano e basta, come pazzi forsennati.

Li ho detestati ogni singolo giorno.

A ogni curva è bene fermarsi e sporgere la testa per controllare che non stia arrivando nessuno scooter, perché quelli non si fermano, né avvertono del loro arrivo al di là della curva con un colpo di clacson. Devi lasciarli passare, anche se non sai ancora che stanno arrivando. I marocchini che sono a piedi, invece, non smettono un secondo di parlarti. Provano a capire la tua nazionalità e provano a venderti qualsiasi cosa, a farti entrare in qualsiasi ristorante, a consigliarti la strada migliore per arrivare alla piazza. Parlano sempre.

Li ho detestati ogni singolo giorno.

Li ho detestati soprattutto la sera in cui siamo andati a cena nella piazza principale, quella di Jemaa el-Fnaa. È una piazza piena di bancarelle, colori, odori, animali, persone, rumori, grida: è l’immagine del casino. Ed è questa la sua bellezza. Stavamo camminando fra i corridoi degli stand di cibo mentre venivamo assaliti da ogni lato da gente che voleva ci sedessimo alle loro panche.

«Vieni qui, amico,» dicevano al mio compagno di viaggio. «Sei magro, siediti e mangia qualcosa.»

Quei bastardi a me non hanno detto una singola volta che ero magra.

Li ho detestati ogni singolo giorno.

Una delle cose che non vedevo l’ora di fare in Marocco era trascorrere una notte nel deserto. Lo avevo già fatto in Australia, quando ero andata a visitare Uluru. Era inverno, non avevamo tende e avevamo dormito in sacchi a pelo militari sotto le stelle, col viso completamente congelato e il terrore che un dingo da un momento all’altro venisse a sbranarci. Il sacco a pelo militare impediva qualsiasi movimento, ma ammetto che pur essendo molto freddo, non lo avevo patito. 

In Marocco sarebbe stata un’esperienza diversa. Innanzitutto perché era estate e perché il deserto africano suona decisamente più eccitante. È stata un’esperienza piacevole, a parte la cena a base di tajine e il fatto che per due giorni e due ore e mezza spese in groppa a un cammello io non mi sia potuta fare la doccia né lavare la faccia. Non c’era acqua nella maniera più assoluta. Che è una cosa ovvia, quando arrivi, ma la verità è che non ci pensi prima di partire. E non farsi la doccia stando in mezzo alla sabbia, con quasi quaranta gradi e cavalcando un cammello, non è esattamente un qualcosa che non vedo l’ora di rifare. 

Al risveglio dalla mia notte del deserto, ho accettato esanime il fatto che mi stesse venendo l’herpes sul labbro superiore. 





Nel corso della notte non ero riuscita a dormire: ho passato le prime ore in dormiveglia sognando di essere attaccata da dei ferocissimi cani del deserto, alle quattro e un quarto mi sono allontanata dall’accampamento per fare la pipì e alzando gli occhi al cielo ho notato che il tappeto di stelle era semplicemente mozzafiato. Ho pensato che mi sarei seduta sulla sabbia e sarei rimasta a osservare un po’ quelle piccole e meravigliose luci, ma la verità è che mi ero dimenticata gli occhiali vicino al cuscino e riuscivo a vedere solamente dei pallini orrendamente sfocati.

La passeggiata sul cammello, poi, era un’altra attività che mi incuriosiva parecchio. Mi sono preparata con la sciarpa in testa, mi sono seduta, il mio cammello Bus-Bus s’è alzato ed è così iniziato il nostro viaggio verso l’accampamento nel deserto. I primi minuti sono stati piacevoli. Era divertente. I cammelli hanno delle zampe lunghissime, quindi mi sentivo altissima. Dopo circa centoventi secondi ho iniziato a chiedermi come mai non avessimo noleggiato un quad. L’ondeggiamento continuo avanti e indietro mi causava dolori ovunque: all’interno coscia, alla vagina, alla schiena. La passeggiata, fra l’altro, è stata parecchio lunga, con salite e discese sulle dune. Per fortuna non avevo modo di annoiarmi, perché mentre il giapponese di fronte a me era impegnato a riprendere tutto il panorama alle sue spalle, cioè io e Bus-Bus, con una Go-Pro – il che mi costringeva a essere sempre sorridente e a non mostrare la sofferenza fisica e la noia psicologia, il mio compagno di viaggio dietro di me non ha smesso un secondo di gridare:

«Bèa! A te fa male? A me sta schiacciando le palle!»
«Bèa! Non mi sento più le palle!»
«Bèa! Questa cosa è orrenda, ho le palle che sono un purè!»


BB²



Ricordo che il giorno prima di partire per il Marocco ero andata a pranzo con una inglese. Le avevo detto come fossi parecchio contenta di andare perché avevo davvero bisogno di un po’ di sole.

«La nostra estate qui è stata ottima, dai!»

Non sapevo se limitarmi a guardarla, se ribaltare quel tavolino, mettermi a ridere… Sì, l’estate 2018 in Inghilterra non è stata atroce come me l’aspettavo, abbiamo avuto tantissimi giorni di sole e venti gradi abbondanti. Ma già il fatto che io mi sia quasi messa a fare una conta dei giorni di sole è indice di qualcosa che non va: in estate si annotano i giorni di pioggia, perché si dà per scontato che in tutti gli altri faccia un caldo boia e no, venti grandi non sono un caldo boia. Andare a una grigliata di sera e dovermi portare il maglioncino da mettere su alle otto perché inizia a far freschino e poi la giacca alle dieci perché basta, ormai fa ufficialmente freddo, non è un’estate ottima.

«Certo, ma sai, parlo di quel sole così forte che ti entra nelle ossa e te le rinforza.» Mi limito ad appuntare.

«Ho capito.» Ribatte lei.

Ma che cazzo vuoi capire.

C’è una cosa, infine, che mi dimentico spesso: io sono una sfigata. Sì, estate, bello, sole, caldo, mare! Per me tutto ciò vuol dire solo una cosa, e non è l’abbronzatura: vuol dire eritema. In Marocco, per fortuna, non mi è venuto l’eritema come era successo in Norvegia, ma mi è venuto un altro sfogo della pelle. Sudavo parecchio, faceva un caldo pazzesco e in quella cavolo di città non c’era un angolo d’ombra manco a pregare. Mi sono ricoperta di infinite e minuscole bollicine bianche. Non facevano male, non prudevano, erano solamente abominevoli alla vista. Dopo una accurata ricerca su Google ho scoperto che si trattava della Sudamina Cristallina. Il sudore, in poche parole, non riusciva a raggiungere l’epidermide e a uscire sotto forma di goccioline e mi sono ricoperta di bolle. 

Herpes, bolle, ustione di terzo grado alle tette e anche i marocchini preferivano guardare le loro donne col velo e i vestiti neri fino alle caviglie. Poi la gente mi chiede come mai su Instagram non metto mai foto di me durante i miei viaggi – eh, raga, almeno un paio di Mi Piace mi fa piacere prenderli, mettiamola così.


«Mi raccomando, fammi una foto bella: prendi tutto il panorama, non tagliare...»



Non era difficile immaginare le cause della sudamina cristallina, eppure una di quelle elencate non era esattamente fra le classiche che mi aspettavo.





Sovrappeso.

Senti, Marocco, vai a fare in culo va’.

B.

PS: In Marocco il succo d’arancia è buonissimo e Marrakech è la città più instagrammabile del mondo. Giusto per aggiungere due cose positive a un post di fatto massacrante.









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