IL MIO ULTIMO GIORNO DI LAVORO

Era il 2015, avevo appena iniziato la laurea magistrale e avevo le idee chiarissime: volevo finirla il prima possibile. Il piano di studi prevedeva uno stage obbligatorio di 240 ore, per acquisire 6 crediti, stage da svolgere nel corso del secondo anno. Ma al secondo anno avrei dovuto pensare anche alla tesi, avrei avuto l’ansia di dover finire, ogni mese di ritardo nella ricerca del tirocinio avrebbe allontanato anche la tanto agognata laurea e poi… E poi io ero nuova in Unimi, venivo da un altro ateneo ma mi era bastato un solo giorno nella sporca sede di Festa del Perdono per capire che alla Statale non ci sono regole: non perché non ce ne siano di scritte, ma perché i tempi per mettersi in contatto con la segreteria, per avere una risposta degna del Q.I. di una nutria sono talmente lunghi e frustranti che alla fine conviene fare il cazzo che si vuole. Così ho deciso che io lo stage lo avrei fatto il primo anno e, anzi, lo avrei iniziato subito, nel primo semestre.

Mi iscrissi al portale dell’università per trovare le offerte pensate ad hoc per il mio percorso di studi. Ce n’erano poche più di 4. Un ottimo inizio per capire quante porte mi avrebbero aperto una triennale in Lettere e una magistrale in Editoria. Andai così a sbirciare anche fra gli annunci della Cattolica, che generalmente è sempre stata più efficiente. E con “sempre più efficiente” intendo anche “tre volte più costosa”.

Feci il mio primo colloquio in via Alessandro Volta a Milano, presso la sede della onlus Progetto Itaca. Posizione aperta: addetto all’ufficio stampa. Mi accolsero due signore di mezza età in evidente sovrappeso.


«Abbiamo visto che alle spalle hai già parecchie esperienze di volontariato all’estero… E hai anche lavorato un anno al British Council. Cosa facevi di preciso?»
«Io mi occupavo…»
«Insomma: lo facevi il caffè? Perché qui ne farai molti.»
Risero.

Erano obese, sedute sulle loro sedie con le rotelle. Livello simpatia: Gabibbo.
Belandi!

Mi offrivano uno stage di otto ore al giorno, per otto mesi, gratis.

Una notifica su Facebook mi aprì una nuova porta. Una mia amica mi taggò in un annuncio: un’associazione culturale cercava una risorsa per uno stage nell’ambito dell’editoria. In poco meno di tre settimane fui chiamata a colloquio. Era un venerdì, faceva freddo e scesi alla fermata Cenisio della M5. Il lunedì seguente iniziai il tirocinio. Lucia e Francesca furono le mie prime colleghe.

Ho iniziato a lavorare per Rosaspinto ormai due anni fa, e oggi è arrivato l’ultimo giorno. L’ultimo giorno di due anni lunghi, due anni pieni zeppi di alti bassi, due anni in cui, com’è ovvio, ho imparato tantissimo. Ho imparato tantissimo su di me, in primo luogo. Sono stati due anni scanditi dalle stagiste che si susseguivano una dopo l’altra, ogni tre o sei mesi. Ma stavo dicendo un’altra cosa: stavo dicendo che questi due anni sono stati per me soprattutto un periodo di profonda scoperta di me.

Tornando alle stagiste: mi affezionavo a tutte. Anche io avevo iniziato come loro, tramite l’università, e quindi sapevo quale sensazione le svegliasse ogni mattina: loro di venire a lavorare non avevano alcuna voglia, ma dovevano portarsi a casa quei maledetti 3 o 6 crediti. E poi spesso capitava che le stagiste fossero più grandi di me, quindi, insomma, io la voce grossa quando sbagliavano qualcosa non sapevo proprio farla. E così ho capito una cosa su di me: io non farò mai carriera. Non salirò mai ai piani alti, non sarò mai una manager, una dirigente o che cazzo ne so. Non riesco a essere cattiva, nemmeno quando serve. Non riesco a non provare empatia per chi sta sotto di me, non riesco a non sobbarcarmi lavori che non devo fare io ma che mettono in difficoltà chi dovrebbe svolgerli. E sapete perché non diventerò mai nessuno? Non solo perché nella vita bisogna essere stronzi e tirare fuori i coglioni, ma soprattutto perché dei rimbambiti come me, buoni fino al midollo, la gente se ne approfitta.

La cosa, quindi, che con maggior stupore ho scoperto di me in questi due anni è che io, Bea, Red Goon, la cretina, clownesca, volgare, irriverente, permalosa, ancora volgare e zabetta e lasciatemelo dire, un po’ troppo volgare, io… Io sono buona. Fa molto strano dirlo perché credetemi, ma è molto più facile e produttivo essere stronzi. Ma io non ce la faccio. Se c’è da lavorare un’ora in più, io mi fermo. Se ci sono 114 articoli in più da scrivere, me li accollo io. Se c’è da spiegare qualcosa e io sto già facendo 459 cose, tanto vale farne 460 contemporaneamente e allora sì, lo faccio io. 

Non venitemi a dire che è un pregio, perché posso assicurarvi che è un difetto enorme. È una rottura di coglioni: tutti ti adorano, perché sei la Bea che aiuta tutti, che ha sempre il sorriso in faccia e se non ce l’ha sfoggia una poker face da Oscar mentre annota sul suo quadernetto verde l’ennesima cosa che deve fare per altri senza battere ciglio, sei la Bea che alla fine riesce sempre a risolvere i casini che nella maggior parte dei casi non ha causato, sei la Bea che fa le battute sconce, che racconta aneddoti divertenti, che fa la finta saggia, che ha sempre una storia ridicola da raccontare perché ridicola è tutta la sua esistenza… La Bea che… Se c’è, beh, allora alla fine lo farà lei. Tutto. E sapete qual è l’aggravante? Che a me piace essere quella Bea. A me piace aiutare, essere sempre disponibile, passare le sere davanti al computer con un quaderno sulla scrivania e la penna in bocca. A me piace, e quindi è per questo che io a dire agli altri cosa devono fare non mi ci vedo.

Non sono capace.

«La cosa che mi ha fatto avvicinare a te, il motivo per cui ho voluto uscire con te e per cui sono qui, in questo letto con te adesso, Bea, è che sapevo, prima ancora di conoscerti, che a te potevo dire tutto ed essere me stesso. Io quella sera ho visto più di una ragazza brilla: ho visto una bella persona. Tu mi piaci perché sei una bella persona, Bea, tu sei buona

È così che mi sono trovata a dare seconde possibilità a chi non se ne meritava nemmeno una.

Ma due anni nel mondo della comunicazione e del giornalismo food mi hanno insegnato anche altro.

Innanzitutto, mi hanno fatto capire che io non sarò mai una giornalista. E questa è stata la presa di coscienza più sofferta. Penso di essere rimasta l’unica nel 2017 ormai, ma io voglio un lavoro fisso, lo voglio in ufficio. Voglio avere degli orari fissi. Voglio avere uno stipendio fisso a fine mese, soprattutto. Non voglio inseguire il sogno di quando avevo 10 anni, ritrovarmi a collaborare con una manciata di testate che mi pagano con soldi di cioccolato, dovermi trovare secondi e terzi lavori in settori attigui per riuscire a pagare l’affitto di un monolocale a Cinisello Shampoo perché il balsamo costa troppo. Scusate, era penosa e non faceva proprio ridere ma avete capito cosa voglio dire. Certo, ho scoperto che il mondo del giornalismo food è un mondo che ha tantissimi pregi. E i giornalisti veri o sedicenti tali hanno tantissimi privilegi, di cui io per prima ho potuto godere per due (corti, in questo caso) anni: cene gratis ogni settimana, degustazioni gratis, cocktail a gogo, etichette prestigiose in regalo solamente per essersi presi la briga di partecipare a un viaggio stampa completamente offerto. Hotel di lusso, ristoranti stellati. 

Mi mancheranno tutte queste cose. 

Mancheranno anche al mio profilo Facebook, che sarà decisamente più scarno, più triste, pieno di fish and chips che non solo non sarà gratuito, ma che in Gran Bretagna mi faranno anche pagare un occhio della testa. Mi mancherà sedermi ai tavoli delle cene stampa e rimanere muta per tre ore di fila. Ecco un altro motivo per cui questo lavoro non fa per me. Io sono una cazzo di asociale. A me non piace parlare con chi non conosco, io non so parlare con chi non conosco, io non ho niente di interessante da dire per cui non apro la mia fogna di bocca. Ma essere in grado di conversare su tutto, su niente, sulla passata di pomodoro usata per preparare una pizza margherita o sul concept, sul format e su tutte le parole che vanno di moda adesso nella comunicazione, è la base del lavoro di un buon giornalista. E io non so essere una brava giornalista. Non so essere brava in quello che pensavo fosse il mio sogno più grande. Io sto zitta, sto in disparte e poi esplodo davanti allo schermo del mio pc o, ancora meglio, sulla tastiera del mio iPhone. E sapete una cosa? È attraverso il mio blog, attraverso il mio profilo Facebook che mi sono fatta un nome nel circolo dei giornalisti di food.

«Lei è la Bea, aggiungila subito agli amici e leggi i suoi post. È una forza.»

Io vado bene per altro. E l’altro basta trovarlo. E lo troverò.




Questi due anni sono stati un’esperienza importante. Sono cresciuta parecchio. Tutto il cibo gratis mi ha fatto ingrassare, i ristoranti stellati non mi hanno fatto dimenticare che non c’è niente di più buono di un panino lercio, salamella e peperoni, sbranato alle 4 del mattino dal paninaro di fronte al locale, i vini da 300 euro a bottiglia che ho bevuto seduta con una scopa in culo non mi hanno regalato le stesse emozioni di quella vodka lemon tracannata a Monza dal baule aperto di una Panda color cappuccino né hanno cancellato in me l’idea che non ci sia niente di più buono di una birra ghiacciata della Pazzeria bevuta al tavolo di legno insieme agli amici del cuore. Non voglio sputare nel piatto in cui ho mangiato: sono stati due anni speciali, e non nego che, come tutti quelli che ho conosciuto lavorando, se fosse stato possibile sarei andata avanti a godere in eterno di tutti i privilegi stampa di cui mi sono gongolata dal 2015. Non sputo nel piatto in cui ho mangiato perché insieme alle cene gratis, ho aggiunto al mio bagaglio anche i nomi di persone importanti e che porterò in valigia con me in Inghilterra. Colleghe che sono diventate amiche, giornalisti più grandi che hanno saputo farmi sentire a mio agio, che nel mio piccolo e nella mia inesperienza mi hanno fatta sentire una di loro, una degna di sedere a quel tavolo stampa, giornalisti più grandi che pur non conoscendomi credevano in me più di quanto lo facessi io.

Ma ragazzi, parliamoci chiaro: il mondo del giornalismo food è una pacchia, è bellissimo, e lo lascio con lo stomaco vuoto e con un po’ di tristezza, però quando si pagava per far sviluppare le foto, stocazzo che fotografavamo gli antipasti. E porca troia.

B.


PS: Mi raccomando stagiste, non combinatemi casini su Nerospinto.it o torno dall’Inghilterra per ricoprirvi di mazzate. In quel magazine ci sono più mie energie di quelle che forse avrei dovuto metterci.


La vera me. | Copenhagen, agosto 2017.

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